Barbara Cappello
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DI ARTE.
DI ARTISTI.
DI PAROLE.
DI SCRITTI.
​DI PENSIERI.

A cura di: Barbara Cappello

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Il tocco presente.

1/27/2021

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L’aroma di cirmolo esala nel tocco della piccola scatola, quale potrebbe essere un bauletto contenete un tesoro. Un tesoro racchiuso in un libro candido; niveo come l’innocenza; argenteo come luce di vita che fu; bianco di titanio come il freddo che racchiude la morte inflitta, perpetrata nell'Olocausto del popolo ebraico, dei diversi, di tutti coloro che sono finiti nelle agghiaccianti tenaglie della macchina distruttrice creata dalla supremazia nazista e dai suoi seguaci.
E il profumo sale, addolcisce le nari. Il rimando ad un bosco nell'aurora bagnata di rugiada si disegna nella percezione di questo sublime senso. E la mano apre questo prezioso cofanetto, in cui è custodito perlappunto un piccolo, silenzioso libretto bianco in cui la Memoria è scritta, impressa. Una scrittura che affiora solo nel giocare con la luce, mettendo a sforzo la vista per cercare le parole impresse dal laser, per stimolare la voglia di sapere, di conoscere, di fissare nella mente e nello spirito. E lo stupore affiora sulle labbra alla visione di pagine senza immagini, solo impresse da un rettangolo nero, posto appena sopra il centro della pagina. Denso. Scuro.
 Appare come una finestra murata di inchiostro, come uno spazio oscurato. E la tentazione di toccare si fa forte. Fino a non resistere. Per capire cosa si può sentire sotto il palmo della mano. E tocco. Premo. Tolgo la mano. Guardo. Succede un qualche cosa. Il nero si dipana leggermente. Si intra-vede. Allora sfrego la mano sul tessuto della gonna, per riscaldarla. Poi nuovamente la poggio sul nero. Ripeto più volte questo gesto. E la Memoria affiora. Una immagine. Una persona. Una deportata. Fotografata. Perita. Affiorata qui. In questa Memoria che deve essere tastata. Annusata. Guardata. Toccata. Raccontata. Una Memoria che deve essere tramandata ai posteri. Una Memoria presente. Vera. Reale. Una Memoria attivata dai sensi, soprattutto in questo momento in cui i sensi quali tocco e olfatto sono sospesi dentro lo stato sanitario pandemico. Dunque il rischio di perdere la Memoria è ancora più reale, poiché per fissare l’esperienza dentro l’essere umano è necessario passare attraverso i sensi, come strumenti necessari per distinguere il fatto virtuale da quello reale.
Un pensiero di Luce illumina questo nero. L’arte, come sempre è quel linguaggio importante che reca Conoscenza e Memoria. Senza fronzoli. Senza troppe parole. Semplicemente attraverso il lessico con cui si esprime. L’arte è Memoria.
Questa è una opera: “Touch” realizzata nel 2017 da Pietro Cavagna e Giulio Malfer. Un libro Bianco in cui il testo è scritto con il laser e per leggere bisogna giocare coi tagli di luce per scorgerne le parole. “ La cultura è un percorso difficile” dice Malfer. Concorde aggiungo che necessita di tutto il tempo dedito e per mantenere in memoria si abbisogna di fatica e costanza. Un libro costituito da dodici pagine in cui compare un riquadro nero di inchiostro termo sensibile, che sotto il calore della mano, del tocco, si dipana e scopre l’immagine di dodici tra ragazze e ragazzi vittime dell’Olocausto di cui riporto qui i nomi: Anna Dryjak, Aron Fass, Edward Felgräber, Edward Grabarski, Emilia Muda, *styna Trzešniewska, Leokadia Adamczyk, Liban Josef Israel, Luis Krakauer, Maria Ozych, Nachman Salamon, Zdenka Majer. Questi nomi sono dovuti per dare una identità, per essere presenti alle nostre memorie, per essere coloro che portano la voce di tutti coloro che furono ugualmente vittime: testimoni che compaiono sotto un tocco reale.
“Touch” è stato presentato anche il 27 gennaio 2020, nel Campo del Gheto Novo a Venezia, presso la Galleria Visioni Altre, per la cura di Adolfina de Stefani. Durante la presentazione furono coinvolti i ragazzi delle scuole superiori, i quali hanno partecipato con grande attenzione a questo progetto. Dunque pensare di perpetrare questa memoria attraverso il tocco dell’opera “Touch” risulta essere un gesto da insegnare, come apprendere.
 
@Barbara Cappello
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Dodici (13) Bocche per un Cenacolo

11/11/2020

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“Non so se tra le rocce il tuo pallido

Viso m’appare, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda”




​da la “Chimera”
di Dino Campana
Lo sguardo cade nel nulla, ovvero su quel nulla che appare nella architettura performativa antistante alla porta spalancata dell’Oratorio, quale quinta di un Cenacolo che apparentemente tenta la profanazione della Ultima Cena con la raffinatezza della castità eburnea, mascherata dalla china che ne oscura la bocca.
Proprio la bocca, orifizio, luogo dove esce la parola, dove entra l’ossigeno che ne alimenta il battito cardiaco attraverso la respirazione, ove il cibo pone il suo primo ingresso, come nutrimento per il corpo. Proprio la bocca, quale porta di ingresso e di uscita del corpo quale tempio sacro, come l’Oratorio retrostante.  Proprio la bocca, ara delle della parola, interprete delle emozioni, esegeta dello spirito. Proprio essa, annerita da una maschera nera, mentre il corpo risplende come l’avorio, imponendosi allo sguardo, ostentandosi nella purezza, nella bellezza, nella sublime estetica dell’eleganza, nella gioconda rappresentazione della Luce.
Dunque un corpo che parla, mentre la bocca tace nel convivio assente di vivande, ma presente di pensiero, di provocazione, di rivoluzione. Il Cenacolo rovesciato, messo “a testa in giù”, come “Le Pendu” – XII Arcano Maggiore – in cui al tavolo sono Donne, dodici, e un solo uomo in una sospensione immobile nel cui fulcro avviene una gestazione meditativa di attesa, di indugio, di amore; e il peccato si origina come fedeltà verso sé stessi; e la gentilezza scorre copiosa; e la notte diviene luce assente dal timore di essere frastagliata dal efferato giudizio di genere.
Ma il pensiero scorre da una voce lontana, che narra le sfaccettature di diversi colori appartenenti al mondo meno visibile dell’essere femmineo. Come il canto di un placido torrente scandisce parole di atti considerati talvolta indicibili, perché spesso additati come non conformi al comportamento di tale genere. Ecco la china che oscura l’eburnea purezza, ma al contempo la rende bellezza pura cancellando quel segno imposto in cui l’umiliazione prende la forma distorta per avvalere la critica spietata. Cosa significa peccare per una donna? Cosa vuol dire aver l’amore per la verità?
Le stesse domande si possono porre anche all’uomo. Ma le risposte saranno culturalmente differenti.
Giustappunto ho scelto le parole di Dino Campana. La Chimera appare nel magico momento tra veglia e sonno. Saperla cogliere è un atto di grande capacità. E, nel Cenacolo, Adolfina de Stefani crea il morso d’avorio che addenta la china come pasto per questa sua architettura educativa, in cui l’arte ne è l’ingrediente basilare. Donne si diventa. Uomini si diventa. Esseri umani senza confini di genere si può divenire.
 
Barbara Cappello
Trento, lì 25 ottobre 2020
 
Performance “IL CENACOLO”.
“«Il Cenacolo» opera rivisitata a partire dalla raffigurazione che ne ha dato Leonardo Da Vinci , caricandole di nuovi significati e rendendo palpabile il tema della morte, e della vita, indagando sul tema della confusione della mente attraverso l'impenetrabilità dell'immagine sacra, sul rapporto tra arte e performance. L'obiettivo è quello di sottolineare come l'opera di Leonardo continui a contaminare l'arte contemporanea, trattandosi di una figura geniale e poliedrica, il suo pensiero e il suo lavoro si prestano ancora oggi a fornire spunti per sviluppare linguaggi nuovi e per affrontare tematiche antiche in modo innovativo. La visione dunque, di un luogo dinamico e vivo, aperto alle contaminazioni e alle socializzazioni, alle osmosi di pensiero, non più vittima di una clausura auto imposta nella quale l’arte (con la complicità delle gallerie) sembra essere segregata da tempo. Una provocazione? Uno scandalo? Una visione piatta e utopica del reale? O un illuminante spunto d’innovazione?”. Adolfina de Stefani.
10 ottobre 2020 - Oratorio di Santa Maria Assunta a Spinea  -VE
A cura di Adolfina de Stefani, con la partecipazione di dodici donne e un uomo.
Antonella Argentile | Federica Basso | Lucia Chiavegato | Chanel Diaz | Valentina Elena |Barbara Furlan | Giacinto Fantin | Miryam Gozzi | Fabiana Laurenzi | Agustina Perez Pellegrini | Patrizia Trevisan | Viviana Zorzi| Anonimo
Photo: Giulio Malfer
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Premio Lino Midolini

9/21/2020

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Progetto Midolini – un Premio di ambizioso prestigio - 

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Massimo Podelmengo - “Senza titolo” 2020 - piastre in ghisa da sfangatrice -
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Bepi Fattori – “Levriero” 2020 – ferro recuperato –

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Marco Ciani “Punti di Vista” 2020 – tubazione da metano -
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Maria Grazia Collini – “Tempi Burrascosi” 2020 –

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Elena Clelia Budai – “L’Atleta”2020 – guaina bituminosa, cemento – bobina per cavi –
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Marina Battistella – “Donna con Cappello” 2020 – ferro recuperato     
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Marco Mantesso – “Giraffa” 2020 – telai motocicli – bulloni – tondini -tubi –
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​Fabio Comelli – “La Fenice” - lamiere ferrose, acciaio inossidabile, scarti di lavorazione laser –
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​Elena Cossetto – “Kiklos” – scarti edilizi – cemento –
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​Graziella Ranieri
 – “Il Grido della Terra” – 2020 – materiali ferrosi, rame, composto cementizio, ossidi –
“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto”.
Claudio Magris


Esiste un luogo, un microcosmo, alle porte della città di Udine, dove un torrente, il Torre, scorre da sempre. Un luogo in cui, nel moto del tempo lungo queste acque, nel rispetto dello stesso, un imprenditore, Lino Midolini, realizzò un Opificio ove il movimento costruttivo del lavoro e dei lavoratori del secolo scorso ebbe una storia importante per l’economia del territorio.
Oggi, la figlia, Raffaella Midolini impiega la sua forza,  energia, sensibilità e lungimiranza per la riqualificazione del sito del quartiere del San Gottardo, sede degli Opifici industriali dismessi, attraverso le energie rinnovabili, e la realizzazione di un ambizioso progetto artistico e culturale entro il quale gli artisti che ne sono stati, e saranno, coinvolti esprimo la cultura e creatività artistica attraverso la Scultura, Murales, Graffitismo e Street Art, fino alla ristrutturazione degli ex edifici industriali, i quali diverranno luoghi espositivi, centri di incontro per conferenze culturali, residenze artistiche, laboratori creativi e centri musicali.
Il luogo sarà, inoltre, un parco risanato, in cui i cittadini potranno accedervi attraverso percorsi pedonali e ciclabili, nel quale sorgeranno delle colonnine per la ricarica elettrica delle biciclette. Un percorso in cui poter mirare le sculture poste nel parco, a cielo aperto; una ricreazione salutare artistica e culturale ove il focus è posto sul connubio di benessere accrescitivo del singolo, come del collettivo.
Un tributo, inoltre, all’imprenditore, che amava il benessere dei propri lavoratori, la cultura e l’arte.
Nell’Italia di oggi, questo progetto è una pietra miliare, posta sulla strada tortuosa del concetto relativo al dialogo tra arte – cultura – economia. Una pietra che diviene pregiata nel momento in cui si concretizza e dimostra come l’economia può essere sostenuta e può divenire sostenibile. Un tracciato importante che esprime un esempio per un futuro prossimo entro il quale di arte e cultura ci si può nutrire, non solo in senso figurato, bensì reale. Il fabbisogno del cibo artistico e culturale è parte del DNA del nostro Paese, ma non dimentichiamo che l’operosità di chi crea questo prezioso ingrediente ha il diritto di essere riconosciuto. E, chi investe in questo prodotto, spesso considerato non redditizio, è consapevole dell’esatto contrario, in quanto l’economia si basa anche sul riverbero di ritorno della propria immagine, come sulla possibilità, attraverso un progetto di questa natura, di creare degli organici dedicati, i quali muovono quella economia, mi permetto, “invisibile” non capitalistica.
Dunque, un atto di consapevolezza ben radicato, questo lodevole progetto ideato e realizzato da Raffaella Midolini, pieno di coraggio a cui le lodi vanno espresse a grande voce. Un disegno che rappresenta appieno l’incipit delle parole di Magris, nonché il profilo di Lino Midolini, perché è proprio quel paziente labirinto di linee che traccia l’immagine del volto dell’uomo, attraverso quel compito naturale di disegnarne il mondo.
 
Per questa prima edizione 2020 il Parco del San Gottardo, ex sede IFIM, è stato inaugurato attraverso la realizzazione e la messa in opera di dieci Sculture realizzate da dieci artisti territoriali. Le opere scultoree sono state interamente create con materiali recuperati dal sito stesso, quale luogo di discarica di inerti provenienti dall’edilizia, ora bonificato. Pertanto gli artisti si sono prestati a cercare i materiali che meglio potessero essere impiegati per le loro sculture. Questo è un grande esempio di come reimpiegare ciò che era destinato alla dismissione e di come un racconto legato alla archeologia industriale si concreti attraverso l’arte: inerti che furono vita di costruzioni fatte dalla mano umana, scaricati, perché inutilizzabili, rinascono nelle “viscere” dell’opera per mano della maestria artistica. Un “ritorno alla vita” in cui la storia del lavoro che si svolgeva in Opificio è testimonianza concreta iscritta nella scultura dentro la quale quel materiale diviene pregiato e assume l’estetica assoluta della bellezza.
 
 Opere e artisti della Prima edizione Premio Midolini 2020 in ordine di fotografia.
Di cui vicitori:
Elena Clelia Budai
Marco Ciani
Marina Battistella
 
 Massimo Podelmengo - “Senza titolo” 2020 - piastre in ghisa da sfangatrice -
Un concetto raffinato, sinuoso, estetico, timido con una grande forza in cui la resilienza ne è l’accento primario. Una comunicazione vibrante attraverso l’etere che solca il futuro, attinta dal passato. Quasi tenta di nascondersi, come se avesse il desiderio di solitudine nel luogo in cui è posta, come il monaco dentro il suo monastero.

Bepi Fattori – “Levriero” 2020 – ferro recuperato –
Maestria nella trasformazione: il materiale inerte, quale elemento di primo utilizzo sin dalla notte dei tempi, prende forma e pulsa nell’animale. Un prodigio cinetico nella stasi apparente, che evidenzia l’eleganza del levriero, emblema del perpetuo correre avanti, ma anche di gioco e relazione con l’uomo. Una simbiosi tra magia e realtà, tra forza e coraggio animale.
 
Marco Ciani “Punti di Vista” 2020 – tubazione da metano -
Saggezza e gioco della riflessione in cui lo sguardo apre il cono visivo in direzioni multiple; conduce verso l’osservazione pluridimensionale. Una breccia tubolare che apre la dialettica con il concetto del pensiero a sistema-binario. Una percezione Zen, elegante, raffinata in cui ogni dicotomia materiale, cromatica, esistenziale espone al concepimento di un futuro-prossimo a “portata di occhi”.

Maria Grazia Collini – “Tempi Burrascosi” 2020 – tubature di cemento – rete metallica Suggestione esplicita di “Mare Nostrum”, ove la precarietà delle piccole imbarcazioni sono in balia dei flutti burrascosi, sia reali che ideologici. Altresì una nota giocosa del moto impetuoso della vita ove la precarietà della esistenza cerca il galleggiamento. Come la speranza del colore azzurro Marocco, quale pigmento intenso e intriso di vita. Un canto soave di sirena che travolge la vista col tocco reale del mare pietrificato dallo sguardo di Gorgone.

Elena Clelia Budai – “L’Atleta”2020 – guaina bituminosa, cemento – bobina per cavi –
Simulacro sacralizzante nella rappresentazione dell’atleta contemporaneo, quale emblema della società produttiva industriale: il successo del corpo fattivo, perfetto, plastico, inscalfibile, in perpetua corsa verso l’orizzonte della meta preposta; costruisce l’economia profittevole da cui trae il proprio nutrimento. Antropocenico per eccellenza, celato dalla paura di identificazione sociale, muove l’essere proprio con la forza dell’implosione eccentrica, in una estasi estetica, proteggendosi con la benda intrisa della sapienza antica, quale rimedio che lo condurrà, forse, alla improbabile futura simbiosi con la natura del futuro.

Marina Battistella – “Donna con Cappello” 2020 – ferro recuperato     
L’eleganza e la sinuosità rimandano ad una finezza dell’elemento naturale. Come una betulla che si erge verso il cielo, si contraddistingue in linee antropomorfe femminili attraverso il marcato segno dell’artificio del materiale con cui è stata forgiata. Una forza caratteriale esposta alle intemperie che svetta come un giungo nello stagno.

Marco Mantesso – “Giraffa” 2020 – telai motocicli – bulloni – tondini -tubi –
Visione meccanico-cinetica di un futuro | presente in cui il segno animale possa evolversi in tal senso. Equilibrio e estetica della tecnica meccanica, quale proposta antitetica del mondo virtuale in corso.

​Fabio Comelli – “La Fenice” - lamiere ferrose, acciaio inossidabile, scarti di lavorazione laser –
L’arte barocca espressa con un materiale ferroso diviene una grande espressione estetica della rinascita dalle ceneri. Il fuoco appiccato ai piedi della Fenice – realmente appiccato – ne brunisce il metallo, conferendo alla Opera il segno del passato. Mentre il futuro pulsa la vita nel Cuore posto e protetto dentro un torace possente. Una Araba Fenice che cambia il volto assumendo i tratti della maschera del Medico della peste, con le ali che si aprono in un abbraccio di speranza per il volo pieno di speranza.

​Elena Cossetto – “Kiklos” – scarti edilizi – cemento –
Dialogo aperto tra umanità industriale e ambiente naturale. Gravidanza ancestrale pronta a forgiare il futuro. Una visione concreta, materiale, della creazione dell’umanità come segno perenne della cultura che vi passa attraverso nel tentativo di porre la riflessione verso una eco-sostenibilità futura.

​Graziella Ranieri – “Il Grido della Terra” – 2020 – materiali ferrosi, rame, composto cementizio, ossidi –
Necessità temporale che posa la testimonianza del processo umano. Un contraddistinto segno della forgiatura, per mano umana, del tempo, che grida silenziosamente dalla Terra su cui è posta. Quanto tempo abbiamo speso per arrivare al nostro progresso? Che cosa abbiamo impiegato per realizzare tutto il progetto progressivo dell’umanità? Quanto tempo residuo abbiamo ancora per recuperarne gli errori e per migliorarne i pregi, nonché per dare forgia a nuove realtà? Fermiamoci un momento, senza calcolo di tempo, e scopriamo tutto ciò che sbadatamente o consapevolmente eludiamo.

Sono stata personalmente e profondamente rapita ed emozionata da tutte queste Opere. Difficile darne un singolo giudizio, in quanto tutte, così come sono state realizzate e collocate creano un unisono comune: Arte significa espressione di pensiero e sensibilitภin sua assenza potremmo dimenticarci di chi siamo, cosa facciamo qui e da dove veniamo.
 
©Barbara Cappello
Trento, lì 16 settembre 2020 






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ILLUSIONI 2020

7/25/2020

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ILLUSIONI
 
Cruda immagine induci il respiro nell'affanno di uno sguardo ipermetrope.
La cornea è una ellisse che orbita nel magnetismo del tuo mondo.
Mentre la pupilla trafigge il sogno del mio Universo sino al cono stretto della verità svestita.
 
Essere davanti al fatto reale pone la presenza lucida di stravolgerne le immagini. Le sensazioni si concretano, come sabbia bollente del deserto, in un turbine di tempesta inattesa. Come riuscire a respirare se non proteggendosi con drappo di seta profumata di ricordi? La perdita di sé nella verità che si profila davanti alla correzione visiva delle lenti positive, spesse come il fondo di una bottiglia di champagne, induce a vedere, finalmente, dentro il proprio abisso. Nel buio. Nell'immensa densità delle molteplicità dell’Ego.
Eccoti. Eccomi. Tento il rialzo del mio corpo. È il tuo. Tuo di colei che ha sostituito il mio.  Mio di colei che avrei voluto, forse dovuto essere. Divina. Abbacinante immagine di me che sono te e di te che sono me. Ti trattengo nell'argento del mio volere fragile. Sei colei che ha trafitto le mie carni con il prezioso coltello che egli sfodera nell'amore; per tagliare, per mangiare, per amare. Sono io. Sei un fiore delicato, che strappato alla terra essicchi nella sofferenza della tua bellezza dorata. Sei il sogno della fragranza appena sbocciata del giacinto. Sono io. Sei l’illusione del mio mondo nell'amore. Fragile. Crudele. Schiava. Libera. Sono io. Sei tu.
 
Un trittico in cui ogni pezzo riporta sulla carta l’impressione fotografica di questa, quella donna che innanzi alla visione del tradimento subìto costruisce l’illusione del fatto. Si identifica e contrasta al tempo stesso, perché il suo mondo costruito in questo amore è stato violato. Al contempo si illude di essere lei. Il dolore e il piacere si fondono, non solo nella carne, ma anche nel cuore, nello spirito, perché è il nutrimento di cui ella necessita: illudersi di essere e non essere come gioco perenne del suo destino. Tanto che i fiori essiccati ne riportano la fragilità. Mentre le cuciture ne tracciano la violenza del tradimento e le immagini inducono al gesto del tentativo di rialzarsi se pur trattenuto dalla realtà nel proprio essere.
 
Opera liberante tratta e ispirata dal Cpt 9 di “Abisso – un fine settimana – di Dorothea Tannig (traduzione a cura di Alessandro Zanini). La ricerca e l’espressione di questo lavoro sono scaturite da un flusso di vicissitudini che hanno avuto genesi da un percorso espositivo: “Ricordando il movimento Fluxus”, curato e ideato da Adolfina De Stefani, la quale ha continuato, successivamente a quell’evento, a condurre e offrire questo filo di seta rosso, affinché si siano realizzate sia questa mia opera che quella di altri dodici artisti che vi partecipano.  “Come vivremo in un prossimo futuro”? – Venezia 5 settembre 2020 –
Come rispondere a questa domanda se non attraverso l’arte? Vero, questa è un'altra domanda, ma il futuro ha solo questioni da porsi con risposte talvolta esclusivamente surreali.
Barbara Cappello
Titolo Opera: ILLUSIONI
Anno: 2020
Misure: 40 x 40 cadauna – trittico di 3 pz –
Tecnica: foto digitale (scatti personali) su carta di cotone Arches 90 gr, cucita a macchina su carta Arches 300gr, interventi con filo argento. Il tutto intelaiato su tela.
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FLY

6/21/2020

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20 marzo 2020; scrivevo di questa mia opera realizzata nel 2014, esposta e finalmente visitabile al Grand Hotel Trento
"FLY"
Un’opera realizzata nel 2014 che si vede oggi esposta al Gran Hotel Trento nell'insieme della mostra “Per chi ci cammina accanto”, momentaneamente chiusa al pubblico per via dell’emergenza COVID-19 in corso…mai più titolo calzante, data la distanza che ora le persone devono mantenere…
Fly, il titolo che all'epoca mi ispirò per una mostra che portava il nome “To build a castle in the air”.
Se al tempo poteva interpretare il volo pindarico tra gli amanti di Castel Roncolo in provincia di Bolzano – ne riporto la distinzione con dei simboli decorativi apposti sull'ala, i quali sono gli stessi riportati nella veste di una delle fanciulle che popolano gli affreschi all'interno delle sale nel maniero – indi un probabile amore tra l’uomo e la stessa donzella, oggi posso considerare questo volo una immagine per rappresentare uno stato della attuale situazione che in questo tempo vige.
Due momenti diversi. Due visioni differenti. Due realtà dissimili. Il tutto semplicemente separato dal tempo, ma accomunato dalla presenza umana, la quale nel momento rivolto al passato aveva pensiero e velocità di vita non sovrapponibile a quella contemporanea e probabilmente in futuro cangerà ancora.
Dunque l’uomo al centro del tempo e dello spazio come emblema il quale si pone in relazione con le circostanze del tempo in cui vive, o che interpreta. E tali circostanze possono assumere carattere simile al comportamento dello stesso.
Oggi qui vedo un uomo chiuso nel castello di vetro invisibile quale barriera psico-fisica che lo mostra nella sua “nudità” nel tentativo di sviluppare l’ala primordiale per il ritorno al volo verso la simbiosi naturale, ponendo in evidenza l’orecchio come senso di ascolto verso l’atro e verso lo spazio del suo sogno in cui Pindaro potrà, forse questa volta, condurlo nell'etere della speranza per migliorare ogni aspetto umano e relazionale…perché il realismo contemporaneo della velocità esponenziale nel condurre una vita al di sopra della velocità relativa al tempo attuale ha, forse, indotto anche il genoma del COVID-19 a modificarsi in tal senso: la sua virulenza inafferrabile, inarrestabile è strettamente paragonabile all'isterismo di vita consumistica, capitalistica, arrivistica in cui l’uomo-ego è al centro dell’universo, come ora lo è Corona Virus.
Forse prendendo atto di questa visione (surreale?) come esempio e argomento di studio, potremmo davvero cambiare il nostro futuro in un luogo in cui proiettarci con tempi differenti. Distopia verso utopia? Voliamo!
Barbara Cappello

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Sensibilità per la dignità.

5/26/2020

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“guarda allo stesso modo come le cose lontane
siano saldamente vicine nell'intuizione:
perché non scinderai ciò che è dall'essere connesso con ciò che è,
né se viene completamente disperso nel cosmo,
né se viene riunito”.
Parmenide fr. 4A
 

Esiste un filo sottile tra Oriente e Occidente, un bisso di seta che attraversa le terre del Medio Oriente creando un ponte immaginario tra l’umanità, sul quale la sensibilità dei piedi che vi poggiano in equilibrio traccia una testimonianza, un racconto di ciò che in questo tempo accade al di sotto dei suoi occhi. Difficile mantenere l’eleganza del contrappeso quando i fattori risiedono dentro le sfere indicibili della fame, della povertà, della violenza, del degrado umano e ambientale, perché la concentrazione emotiva ne risente la gravità, ma al contempo ne assume la forza straordinaria della sensibilità.
Lorenzo Tugnoli è colui che galleggia su questo filamento invisibile e che attraverso lo straordinario occhio fotografico ne riporta le immagini; cammina con il tatto carezzevole del cuore in un terreno difficile dove coglie la voce dei momenti di vita, la poesia del vivere una quotidianità che pulsa, l’anima della spinta alla sopravvivenza tra i morsi feroci della carestia, il respiro della speranza infinita verso l’utopia dell’integrazione tra i popoli, il grido silente dentro i campi profughi. Egli ritrae questo Medio Oriente, a noi tanto distante, con un tratto distintivo eccelso, ove descrive questa umanità col linguaggio poetico della bellezza, riportando lo stato attuale delle cose con il massimo rispetto, affinché la dignità umana non venga nemmeno sfiorata dal pensiero.
Dunque un cammino, il suo, che sa la via che è, ma anche la via che non è. La via in cui è inscindibile ciò che è dall'essere connesso con ciò che è, come nel frammento parmenideo, poiché l’importanza del suo lavoro fotografico rispecchia proprio questo concetto, ovvero scrive di un Ánthrōpos a noi alieno, in quanto egli è connesso con ciò che è.
Le sue fotografie, come i frammenti dei Sapienti, o poetici, dispiegano l’ala di una pagina non scritta per intero, bensì impressa con poche parole, le quali disegnano la situazione colta in un istante di tempo non afferrabile, ma che si propaga poi nello spazio circostante con il riverbero della rappresentazione di ciò che sta attorno, lasciando sempre aperto il rigoroso margine del mistero.
Afganistan, Yemen, Libano, Palestina, sono le terre in cui Lorenzo Tugnoli si addentra, in cui cammina tra le situazioni spesso concepite in modo distorto per il mondo occidentale, in cui entra in relazione con le genti che vi abitano, in cui esegue il suo lavoro fotografico. Un Medio Oriente da sempre avvolto nel misterioso velo di un cultura costruita sul passaggio  e l’intreccio di tante culture, dentro la quale abbiamo sognato il suo contorno antropomorfo sui passi de Le mille e una notte, ma che ora sta vivendo un  “buco nero” dal punto di vista mediatico, quasi si volesse cancellare da questo mondo, poiché abbiamo alzato barriere sempre più invalicabili tra una parte dell’umanità e l’altra, partendo dal concetto del bene e del male, del bello e del brutto, del buono e del cattivo. Ma per Lorenzo Tugnoli questa barriera non esiste, perché capace di stare nel tempo soprastante, quello della fotografia, quello di colui che testimonia ciò che avviene, quello di un apostolo - nel senso classico che dal greco significa inviato – per ritrarre la vita che in questo luogo pulsa di dignità, poiché egli vuole posare l’obiettivo sull'avvicinamento tra gli animi attraverso la sensibilità.
 ©Barbara Cappello

Nella foto sopra: Lorenzo Tugnoli.
Sotto: ​Ph by Lorenzo Tugnoli:
Kabul, Afghanistan, Dicembre 2012:
Arifa, una studentessa del Center for Contemporary Arts Afghanistan, posa per una delle opere d'arte dei suoi colleghi.
Questa immagine fa parte di "The little book of Kabul". Le immagini di questo progetto sono state scattate nel 2012 e nel 2013. "The little book of Kabul"è stato pubblicato nel luglio 2014. Kabul, Afghanistan, December, 2012:

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Genitorialità

4/27/2020

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Madre, mi hai messa a conoscenza della Morte.
Padre, mi hai allattata tra la febbre della mastite.
Madre, hai oltrepassato l’oltre con l’eleganza di una cerbiatta sui tacchi a spillo.
Mentre, tu, Padre, cantavi l’Amore per lei.
Madre, mi ha confidato che la malattia si nutre di ciò che si ama e si odia al contempo.
Padre, mi dai notizia che senza Amore, la Morte è spietata.
Madre, mi leggevi Pascoli, mentre il tuo latte si calcificava nella febbre.
Padre, mi educasti alla tribù, perché i genitori sono molteplici, alimentandomi col latte di vacca.
Madre, mi insegnasti a mangiare Natura,
Mentre, tu, Padre, me ne insegnavi la simbiosi.
Madre, mi cantasti la vita del diverso.
Padre, mi invitasti alla tua tavola eterogenea.
Madre, fosti guerriera nella tua dipartita, urlando il diritto alla Morte.
Padre, la accompagnasti, nonostante il burocratico divorzio, nella poesia del suo passaggio.
Madre sei stata di tanti figli non naturali, come una guida nel buio di tante Anime.
Padre, sei il messaggero della resistenza Anarchica nel più spietato mondo della finzione.
Madre ti ho odiata per tanto ti Amo.
Padre ti ho odiato per tanto ti Amo.
Madre, mi hai resa consapevole del mio pensiero critico, tanto quanto, Padre mio, mia hai resa libera nel mio essere.
La mia speme risiede, ora, nel dare altresì Amore.
Barbara Cappello

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Toccare la distanza – un museo per il tatto.

4/20/2020

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   La giusta distanza- opera di Federico Meneghello -

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Un fuoco nero che brucia con l’oscura brillantezza di una gemma
Prosciuga il vasto cielo e la terra di tutto il loro colore naturale.
Nello specchio della mente non si vedono né montagne, né fiumi;
Cento milioni di mondi agonizzanti, tutto per niente
Hakuin Ekaku


Guardare per vedere o vedere per guardare? Questa è una domanda che spesso, in questi giorni, mi pongo. Nel primo caso è una visione superficiale, una scorsa alle immagini, piuttosto che alle parole, come alle forme geometriche, oppure antropomorfe, geomorfologiche e via discorrendo; un approccio etereo attraverso la pupilla, che rimanda poi il visivo al cervello, disegnando ciò che si è visto.
Nel secondo caso si tratta di applicare una “tattilità” visiva allo sguardo stesso. Dunque soffermarsi nel campo del vedere per attivare un accento nel guardare, pertanto osservare, pensare a ciò che si sta guardando, decifrare, tradurre ciò che stiamo guardando, trasmutare appunto un senso nell’altro.
Quel che ci permette di “sentire” col tocco dello sguardo è la conoscenza di un altro senso di cui siamo dotati, ovvero il tatto.
Per un non vedente, la tattilità è una forma di sopravvivenza. Di fatto vede attraverso il toccare; ricostruisce le forme su cui poggia le mani e trasforma queste percezioni in visioni che si aprono dietro il buio delle palpebre. Mentre per un essere dotato di vista, questo senso è apparentemente meno importante, tanto che, nel momento storico in cui viviamo, esso diviene un gesto non fondamentale, in quanto i cambiamenti di abitudini, come l’utilizzo di apparecchiature sofisticate, quali smart phone, tablet etc, divengono l’interazione per il touch, dunque la falsificazione del tocco: tocco lo schermo e vedo, ma cosa guardo? …una sorta di superficie in cui l’etere virtuale si conclama falsificando il senso della percezione. Cosa tocchiamo mentre il dito scorre sul liscio vetro del virtuoso progresso? Forse le fattezze dell’immagine che stiamo guardando, oppure appena ne scostiamo il polpastrello, tale immagine è già scaduta nel post, ovvero nel dopo, pertanto le forme non esistono?
Il tatto è il primo dei cinque sensi che si sviluppa durante la vita fetale. È l’approccio che il neonato ha appena poggia le labbra per suggere il latte materno; è la conoscenza del mondo che gli sta intorno quando tocca con le manine, porta alla bocca e viene toccato con le carezze dei genitori, il tatto  risulta essere anche un canale cruciale per la comunicazione.
Toccare, dunque, per vedere.
Mi soffermo su questi due sensi, poiché vorrei volgere un punto di attenzione su entrambi, quali elementi chiamati a mettersi in discussione, più che in relazione tra essi.
Nel romanzo “Cecità” Di J. Saramago viene narrata una epidemia in cui la popolazione di una città mai nominata, a mamo a mano che il contagio dilaga, perde la vista.
Nella realtà attuale, durante la pandemia di Covid-19, il senso chiamato in causa per la maggiore è il tatto.
Naturalmente il primo è un romanzo, mentre purtroppo l’evento coronavirus è reale. La regola prima per cercare di prevenire il contagio è di mantenere una adeguata distanza dall'altro, oltre che utilizzare presidi preventivi quali mascherine, guanti e gel disinfettante.
Addentriamoci, ora, solo per un momento in questo nuovo stato, dove il senso del tatto rimane particolarmente compromesso e quello della vista commutato in un non senso.
Stare distanti, significa evitare il contatto, non toccare, non toccarsi. Pertanto si può usare questo senso solamente in maniera adeguatamente protetta e in soluzione virtuale, ovvero “touchando” il mondo dell’etere elettronico…per vedere, ma non sentire. Dunque la concretezza della sostanza, la quale attraverso sia il tocco fisico che visivo, potrà subire delle alterazioni ricettive, e forse, divenire una distorsione della realtà.
Se tocco con la mano la pelle di un corpo non mio, la carezzo, ne percepisco le forme, il calore, la consistenza, e la osservo, mentre compio tale gesto, nella mia mente, come nella mia memoria si apre la ricezione di una sensazione che mi conferma la realtà di ciò che guardo e tasto. Ma se venissi educata a non usare questo senso, fin da quando bambina, come se ne venissi addomesticata in età adulta, verrei privata di tale impressione e creerei, probabilmente, un approccio futuro distorto, che vira verso la virtualità.
Dunque la relazione tra questi due sensi subisce una distorsione e lentamente crea una distanza sempre più discutibile nella vita sociale e interpersonale di un futuro prossimo in cui non si potrà toccare l’altro, ma probabilmente non lo si potrà nemmeno guardare, perché il distanziamento fisico crea una barriera invisibile che pone come deterrente il senso di pudore, la non conoscenza, pertanto paura…e quest’ultima potrebbe rendere ciechi.
Usciamo da questo futuro anteriore, oltrepassiamo il presente e rechiamoci per un momento nella preistoria, ovvero pre-SARS-CoV-2 dove esiste un museo tattile, non necessariamente per non vedenti, di cui sono rimasta molto incuriosita. Farsi condurre, bendati, in un percorso tattile dove si propongono modelli in scala di monumenti, chiese, basiliche e architetture varie è l’ingresso alla percezione di ciò che si sta guardando. Esplorare con le dita delle mani, significa dare copro alla immagine che dovremmo guardare; vuol dire disegnare nella mente la struttura percepita; indica i particolari che si concretizzano nello sguardo dentro il cervello. Si tratta di educare, oggi - mentre nel futuro anteriore direi rieducare – a tale senso, il quale entra in diretto dialogo con la vista.
Questo luogo, inizialmente forse voluto per i non vedenti, da ora in poi, più di quanto si possa immaginare è, e sarà, un luogo per il recupero di quel senso fondamentale per la relazione, per l’esplorazione dell’altro, per la comprensione dello stesso e per la conservazione della biologia naturale dell’essere vivente…senza la pretesa di confinare dentro un museo il tatto.
…perché se “Nello specchio della mente non si vedono né montagne, né fiumi” significa che “Cento milioni di mondi agonizzanti”, potrebbe voler dire “tutto per niente”.
 
Barbara Cappello
Trento, lì 19 Aprile 2020

 Crediti: 
 Opera di copertina: La giusta distanza
 di Federico Meneghello – olio su passpartout cm 14,5 x 21
Museo Tattile Varese
Villa Baragiola
Via Ammiraglio Francesco Caracciolo, 46, 21100 Varese VA
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IL PARADISO DEI GATTI

3/12/2020

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Mare mosso. Oggi, le onde esprimono il loro carattere con spumeggianti danze insieme all'impeto del vento che proviene da Trieste. È una di quelle giornate in cui il mare si è svegliato con la fibrillazione un poco alta, motivo per cui non è consigliato immergervi la totalità del corpo per beneficiare della sua acqua salata.
Decido, allora, di dedicare del tempo alla terraferma, recandomi in visita alla cittadina, che della Serenissima Repubblica Marinara, e, ancor nei più remoti tempi, romana fu.
Parlo così, tra uno spruzzo d'acqua salmastra e l'altro, di Poreç, locata in fronte al mare Adriatico sulla costa ovest della penisola d'Istria, appartenente ora, al popolo croato.
Poreç veste le sue strade di pietre bianche, lucide e consunte dal passaggio di innumerevoli piedi che l'hanno nei corso dei secoli calpestata. I suoi palazzi e le sue case sfoggiano e mettono in bella mostra l'architettura veneziana con le sue finestre in stile gotico-veneziano e veneto-bizantino e i cornicioni, visti dal basso, sfoggiano dei preziosi cassonetti geometrici in legno, così antichi che trasudano quasi l'odore del tempo che fu e delle vite trascorse sotto quella loro protezione domiciliare.
Poreç brulicante di turisti, che come formiche addensano il centro storico per consumare il cibo effimero messo in bella mostra dai commercianti imbonitori, che hanno alle spalle l'arte della vendita tramandata dai ricchi veneziani e la caparbietà di un popolo duro e inscalfibile di sangue croato.
Poreç semi deserta nelle calle laterali dal centro che palpita.
Poreç con poetici scorci capaci di intenerire anche il più rude dei cuori. Pietre sconnesse imbastardite dalla gramigna. Intonaci scalcinati. Colori sbiaditi. Vetri impolverati dal tempo e dal sale. Vetri infranti dalla noncuranza. Piccoli usci di legno antico dalle serrature arrugginite. Cortili silenziosi con il profumo dei panni freschi di bucato. Tende che fungono da porte d'ingresso di piccole dimore a pianterreno, ove la musica delle stoviglie suona l'annuncio del pranzo imminente insieme all'aroma speziato delle pietanze che cuociono.
È caldo. Il mare impazza con zampilli spumeggianti sulla passeggiata del lungomare davanti all'imbocco di Lj Gaja. Alcuni passanti si fermano sul ciglio della strada marina davanti all'acqua ed ecco che Nettuno a dispetto spruzza loro un'onda salata. Piccolo spavento per l'inaspettato gesto, ma il sorriso si apre come un ventaglio di dama sulle labbra della bellezza bagnata.
Secoli di storia trascorsa. Indietreggio ora fino al I. sec. d.c. Un grande cedro ombreggia nell'abbraccio dei suoi rami un tempio romano dedicato a Nettuno. Probabilmente, come la storia vuole è il tempio più antico di tutta l'Istria e si possono ammirare una delle pareti e diversi resti della base del tempio. Curioso. Qui la gente non arriva. E dire che sono a due passi dal brulicare della vita. Siedo sul frammento di una colonna che giace a terra, volgo lo sguardo alla parete, presumo, distale del tempio del Dio del mare, cullo il mio pensiero nella fantasticaggine spontanea delle gesta avvenute in questo luogo, frutto dell'insediamento bizantino.
Lascio alle spalle il piccolo foro romano, scendo lungo il vialetto lastricato di pietre, talmente dismesse che danno l'impressione di incitare i miei piedi al ballo della tarantola. Sorrido. Mi mette allegria. La stradina si stringe e dal nulla silenzioso che adorna le mie spalle, davanti a me si apre una piazza a pianta rettangolare affollata di gente, arredata dai tavolini dei bar e del ristorante. Sono curiosa. Mi avvicino al cameriere del locale che sta in strada: il suo compito è quello di invitare le persone ad accomodarsi a mangiare, e gli chiedo il nome della piazza. Marafor Trg. Trg sta per piazza. Marafor, pare, essere una combinazione tra "Marte" e "foro", ovvero piazza di Marte. Fatico un po' a capire lo spelling delle due parole, allora, chiedo al ragazzo di scrivermelo sull'unico pezzo di carta che ho in borsa.: uno scontrino. Deve appoggiarsi al telaio della bicicletta di Max Coltrini, che gentilmente la sua dolce metà mi ha prestato per poter raggiungere dal campeggio il centro di Poreç. E ride. Ride mentre lo scrive, scuotendo un poco la testa. Ridiamo insieme, lo ringrazio e mi congedo con un cenno della mano.
Infilo il primo vicoletto stretto che sta alla mia sinistra, appena dopo le sedie del bar, Lj Gaja: è scritto sulla targa appesa all'angolo della casa dall'intonaco verde acquamarina sbiadito dal sale. Cammino con la bici al fianco fino all'intersecare di una via che svolta a destra. Un astice ed un'orata, anzi un'orata ed un astice sono dipinti una dirimpetto all'altro sul cartellone del ristorante/grill " Rialto". Che pretenzioso questo nome per un locale che nemmeno gode di un piccolo ponte. Mi viene da sorridere. Alzo gli occhi e leggo la targa che nomina la strada. Non perderò mai, credo, l'ossessione che mi perseguita fin da bambina, di dover per forza leggere i nomi delle vie. Ulica Eufrazijeva, via S.Efrasio vescovo ( ma non santo, perché pare non canonizzato ) di Poreç del VI sec. d.c. patrono della basilica omonima, la quale fu eretta nel IV sec. e successivamente rasa al suolo e ricostruita, appunto, da Eufrasio nel 553 dc sul sito dell'antica basilica in stile bizantino. Svolto. Cammino. Tra il numero civico 34 e 38, un grande giardino, ombreggiato da piante piuttosto antiche, mi attira gli occhi. La cancellata, che dà sul marciapiede è di ferro laccato di azzurro e verde alquanto arrugginito. Un luogo assai curioso si apre davanti alle mie pupille. È uno spazio fuori dal luogo. È un luogo fuori dalla realtà che ci si aspetta, ovvero quello di un comune giardino, per esempio. Subito non capisco. Una poltrona verde anni quaranta coi piedini in legno. Un materasso con sopra dei cuscini damascati sciupati. Un tavolino con un televisore obsoleto sopra. Una vecchia scrivania con appoggiate cianfrusaglie d'ogni tipo. Una rete metallica di un letto. Una nassa adagiata a terra in orizzontale. Corde appese ai rami degli alberi con palline morbide di plastica o di pelo. Qualche secchio. Una vecchia poltrona dal colore indefinito tra il marrone e l'ocra. Oggetti di vario tipo, talmente tanti da non ricordarli bene. Sembra un arredamento in stile trans-avanguardista-surreale.
C'è un uomo. Alto. Pelle abbrustolita dal sole, solcata dal vento. Un cappello di canapa chiara. Una camicia a righe azzurrine e verde petrolio, sbottonata fino al petto, ampia al di fuori dei calzoni. La barba biancastra con striature di un biondo paglierino antico. Gli occhi strizzati tra le palpebre, vivaci e profondi del colore del mare. Parla in tedesco con alcuni passanti, giusto due.
Gatti. Ci sono gatti pigramente adagiati e sdraiati nei posti più comodi e impensabili. Sul materasso, sui rami degli alberi, sopra il televisore, dentro la nassa, sotto la rete del letto, sulla scrivania e dintorni. Gatti che con leziosa sinuosità mi si avvicinano con occhi interrogativi. Guardano, poi si girano e tornano al loro riposo nel torpore dell'ombra. Gatti.
I tedeschi si congedano e saluto l'uomo dei gatti, in italiano.
Finalmente italiano! Risponde con un bel sorriso attempato, ma tonico e fiero. Mi racconta la storia di una gattina cieca, mamma di Leo, un gatto che saporitamente sta dormendo sopra un cuscino poco distante da lui, la quale stamane è partita per Ljubljana, adottata da una famiglia slovena. Poi mi parla di gatti che sono "migrati" coi loro nuovi padroni in Germania, persino di uno, che l'anno scorso è andato oltreoceano, a Toronto. Dice di avere quarantadue gatti. Dice che l'anno scorso ne aveva novantanove. È fiero, molto fiero di accudire e dare in adozione i piccoli felini.
Trovo molto curioso ed insolito che un uomo faccia il "gattaro". Solitamente sono le donne ad occuparsi di tale " professione " e poco prima di allontanarmi da lui gli dico che chi ama i gatti è una persona speciale. Il suo volto si fa serio ed asserisce convinto. Attimo di pausa di riflessione e poi mi racconta un brevissimo, a detta sua, aneddoto. -" Gunter, mio grande amico di Germania, quando stato qui ultima volta (a lui piace tanto i gatti!) mi ha chiesto perché i gatti sono tanto belli e sempre sereni. Allora io risposto che sono così sereni, così belli, perché non hanno sensi di colpa! "-
Risata fragorosa. Sua. Mia. Stretta di mano con saluto annesso. Faccio qualche passo, poi mi volto e torno indietro, non gli ho chiesto il suo nome!
-" Zeljko. Desiderio. Come re di Brescia di Longobardi. E questo, è Paradiso di Gatti."-
Poreç è anche il paradiso dei gatti e Zeljko è il suo re e questo mare croato è un abbraccio salato dentro una poesia di colori, genti, culture nello scandire del tempo che passa.
Barbara Cappello

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Lettera aperta per Arte e Cultura

2/23/2020

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“Con fascino nuovo l’intolleranza riemerge prepotentemente come meccanismo regolare dei rapporti tra le singole persone, tra i popoli, tra i gruppi. La violenza dell’uomo sull’uomo oggi pare vivere senza appoggiarsi apparentemente a una ideologia, a una fede che abbia un preciso nemico e a un avversario da annientare. Tuttavia si esprime più forte e irresistibile, innanzi tutto nei singoli comportamenti quotidiani con una rara ferocia e volontà di calpestare, distruggere, torturare. È la ferocia che si profila come mezzo abituale e immediato per sgombrare il proprio percorso personale, spazzare via gli ostacoli, vincere le paure, con il senso di sconfinata potenza che nasce dall’eliminare dal nostro orizzonte gli altri diversi da noi ed esterni alla nostra cerchia, per l’affermazione di un potere innanzi tutto individuale”.
Glauca Michelini– Storie di ordinaria violenza – da Trattato sulla Tolleranza di Voltaire


Apro questa mia lettera con questo scritto di Glauca Michelini, in quanto è fervente di un pensiero che ad oggi si addice con una sovrapposizione precisa al concetto espresso. Da tale concetto, in maniera delicatamente chirurgica, va estratto il fulcro, la cellula, la cisti, ovvero l’uomo. Definisco l’uomo con tali sostantivi, in quanto rispecchia, a mio avviso la triade descritta. Fulcro, come elemento centrale della comunità; cellula, come sostanza biologica che si mette in relazione con la comunità cui appartiene e al di fuori di essa; cisti, in quanto talvolta avrebbe necessità di curare le infiammazioni di natura prettamente egoistica.
Dunque un prologo che vuole mettere in risalto quanto l’identità artistica e culturale vigente siano una sorta di relazione da aprire, curare, guarire tra il cittadino, la comunità e le istituzioni per poter creare una fitta rete di crescita affinché il tessuto sociale possa essere esente da tale violenza, da intolleranza e potere prettamente individuale.
Naturalmente le parole da me scelte, per aprire questo concetto, per cercare di far si che un dialogo col proseguo discorsivo possa realmente concretarsi, sono crude, nude da quei fronzoli di etichetta che ne renderebbero ingannevole il focus.
Ebbene, da cittadina, come da presidente di una associazione di artisti, ovvero Fida Trento, mi preme di mettere gli accenti sull’importanza dell’espressione artistica e culturale del Genius Loci, la quale avrebbe quella naturale necessità di essere sostenuta da quei cittadini preposti nei campi istitutivi, affinché tale verbo identitario venga obliterato e dunque riconosciuto, in modo da confermare l’identità territoriale proprio attraverso questo linguaggio.
E questi accenti vogliono essere di natura grave, così da evidenziare la parola della comunità come vera e naturale espressione di quella che in futuro potrebbe essere l’educazione al percorso personale dell’individuo come futuro membro identitario di una variegata comunità.
È lodevole che nel contesto attuale l’istituzione ponga ricovero e riconoscimento ad arte e cultura di eccelso livello, mettendola a fruizione del cittadino e della comunità; forse potrebbe altresì risultare un poco discutibile la talvolta poca presa di coscienza, da parte della stessa, nei confronti di ciò che una parte della comunità si prodiga nel tentativo di mettere a disposizione la produzione di arte e cultura.
Dunque provo a mettere insieme alcune punteggiature per fare in modo di rendere questa mio metaforico scritto il più reale possibile.
Arte e cultura sono un mezzo assolutamente indispensabile per la crescita personale e collettiva, nonché comunitaria e per riverbero anche extra comunitaria. Tale crescita rafforza e incide le radici proprie, mantenendo un carattere identitario forte e preciso. Dunque una salvaguardia del proprio tratto culturale, che una volta solidificato e forte non teme confronto con chi considerato “diverso”, bensì può relazionarsi e attingere nuove informazioni, come altresì dare per far crescere a volta sua.
Arte e cultura possono all’unisono bandire la sopraffazione degli uni sugli altri, come dell’uno sull’altro e perseguire attraverso tali espressioni il rispetto delle scelte, delle posizioni, dei diritti, in parole povere della “diversità”.
Arte e cultura possono essere anche fonte di crescita economica, laddove tale prezioso argomento di crescita non venga considerato un prodotto da quotazione, bensì un servizio, un mezzo di acculturamento vero e proprio con la finalità di dare lo strumento per poter aprire un canale anche economico nel percorso di ognuno.
Arte e cultura sono quel modus vivendi che crea un senso di esistere al di là di quel sistema capitalistico che ha reso l’uomo solo e egoista all’interno di una comunità virtuale.
Arte e cultura hanno oggi più che mai necessità di spazio espressivo all’interno di ogni comunità e per fare in modo che ciò avvenga, la mano istitutiva potrebbe porgervi il palmo in sostegno, offrendo degli spazi da gestire per attività da mettere a disposizione della comunità, come del fruitore occasionale; snellendo la burocrazia per eventuali sostegni economici; attivando un serio programma educativo sia per le scuole di ogni grado che per il cittadino relativo all’educazione dell’arte contemporanea ( argomento questo, purtroppo tabù, ma assolutamente esistente); aprendo un maggior dialogo con coloro che si esprimono attraverso arte e cultura in modo da avviare un serio e importante progetto divulgativo e costruttivo del Genius Loci in modo da poter pensare di attivare laboratori, botteghe e luoghi in cui imparare ed insegnare divenga un reciproco scambio tra generazioni.
Arte e cultura sono oggi nostre come saranno di chi domani sarà. Pensare a ciò come una immensa ricchezza è la migliore eredità che possiamo dare e lasciare alle future generazioni, ma con una clausola: il danaro mai potrà comprare il bagaglio della Sapienza, perché questa è frutto dell’esperire attraverso il dialogo della cultura.
Dunque proviamo a pensare che l’intolleranza potrebbe essere zittita dalla voce dell’Arte e della Cultura.
 
Barbara Cappello
Presidente Fida Trento – Federazione Italiana Degli Artisti - Trento
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