Marta Lock

Il linguaggio segreto del corpo nelle composizioni artistiche di Barbara Cappello, dove pittura, fotografia, scrittura e performance si incontrano.

L’unione tra varie forme d’arte, tra espressività diverse e tuttavia perfettamente armonizzabili tra loro, esercita da sempre un fascino irresistibile per tutti quei creativi che non riescono ad arginare la propria inclinazione a non rimanere legati a una sola opzione, a un’unica possibilità che non riuscirebbe mai a consentire loro di mostrare tutte le sfaccettature della loro indole artistica. Questo tipo di narrazione multidisciplinare richiede una forte capacità poliedrica in virtù della quale gli autori che ne fanno una caratteristica espressiva, mettono in sinergia armonica i differenti approcci esecutivi in cui la sovrapposizione diviene rivelazione di ciascuno degli strati, in cui la contrapposizione diviene dialogo armonico e la coesistenza si trasforma in simbiosi che consente alla sensazione e all’emozione di fuoriuscire con un’unica voce. L’artista di cui vi racconterò oggi mescola variegati linguaggi espressivi per compiere la sua ricerca sul corpo umano analizzandone tutti quei segni unici e distintivi appartenenti a ciascun individuo ma celando i dettagli che lo renderebbero riconoscibile, quasi esortasse l’osservatore a ricevere solo l’energia dell’immobilità riprodotta, ad andare oltre le delimitazioni dei riquadri dentro cui li colloca per immaginare tutto il non visto, il non detto, in cui di fatto si rifugia l’essenza più autentica.

 

Intorno ai primi decenni del Ventesimo secolo cominciò a emergere, sulla base delle intuizioni e anticipazioni del teorico dell’Arts and Crafts inglese William Morris, un nuovo modo di intendere l’arte ma soprattutto un inedito sguardo verso l’elevazione di tutti quei linguaggi creativi fino a quel momento non considerati come espressione artistica; non solo dunque l’artigianato con le sue tecniche e la capacità di applicare la decorazione su ogni tipo di superficie, ma anche le stampe, le illustrazioni, tutto poteva interagire e trasformarsi per raggiungere la più alta forma artistica. Proprio questo fu il concetto di base su cui nacque la scuola tedesca della Bauhaus dove venne introdotto anche l’insegnamento di materie più tecniche come la tipografia, la grafica, la pubblicità, l’architettura, accanto a quelle artigianali di decorazione del vetro, ceramica, intaglio del legno, e infine quelle più propriamente artistiche come pittura e scultura; una delle novità più degne di nota fu però l’apertura verso un’altra disciplina, quella del teatro decretando così l’inizio di un’interazione impensabile, fino a qualche anno prima, a cui attinsero prima gli esponenti del Dadaismo e poi gli eccentrici e sperimentatori del Surrealismo. Nel caso del movimento più sovversivo dei primi anni del Novecento tutto poteva essere funzionale all’esplorazione del mondo del subconscio, delle inquietudini appartenenti alla mente nella sua fase onirica e dunque meno consapevole, ecco perché le loro opere venivano affiancate da esperimenti fotografici in cui andare a cercare il paradosso visivo, da film e da spettacoli teatrali con sceneggiature assurde e inquietanti. Malgrado la visionarietà dei maestri del Surrealismo come Salvador Dalì, Man Ray e Luis Buñuel, l’interazione tra le varie discipline ormai considerate arte nell’era moderna all’interno di una sola opera divenne possibile a partire dagli anni Sessanta, quando cioè la Pop Art iniziò a mescolare la fotografia e i ritagli di giornale alla pittura e quando il movimento, il concetto e la materia divennero funzionali a enfatizzare l’intenzione dell’autore. Ma fu con l’Arte Cinetica, l’Arte programmata, la Performing Art dove vengono coinvolti tutti i sensi dell’osservatore, che venne richiesto un approccio aperto all’ascolto e interattivo da parte del fruitore perché egli, o il pubblico con le sue reazioni, diviene parte stessa delle opere. L’artista trentina Barbara Cappello, incapace di soffermarsi su un solo mezzo narrativo dei pensieri, delle sensazioni e dei concetti che la sua indole artistica la spingono a esprimere, crea un linguaggio assolutamente personale che sembra inconsapevolmente essere l’evoluzione contemporanea dei movimenti avanguardisti dei primi anni del Novecento, perché in lei tutte quelle esperienze sono maturare e rielaborate per adattarsi a una poetica comunicativa che non accetta confini, non accetta i limiti imposti da una classificazione o dalla necessità di individuare tutto sotto un gruppo definibile e catalogabile. Lei sceglie di lasciare interagire ciò che può essere funzionale a indagare e sviscerare le diverse implicazioni di un pensiero, di un’intuizione che si esplica solo nel momento in cui comincia il dialogo con la tela la quale sembra richiedere la stratificazione, la sovrapposizione e la trasformazione visiva che spesso contraddistinguono l’artista; la fotografia è pertanto essenziale poiché costituisce il nucleo, il nocciolo di partenza per un’osservazione che proviene più dall’intimo che non dallo sguardo, dalla presa d’atto di quanto la pelle nuda sia la voce silenziosa che appartiene a ciascuno, diverso da chiunque altro, proprio perché è l’unico abito che non può essere mai cambiato o sostituito. Alla parte più strettamente figurativa, prevalentemente al centro della struttura dell’opera, vengono affiancati, ritagli di carta, di stoffa, strati materici cuciti alla base attraverso cui Barbara Cappello sottolinea l’unicità di quelle pieghe, dei segni che si sono impressi sulla superficie della pelle e che parlano dell’esperienza, del sentire, della personalità sviluppatasi dalle circostanze e che appartiene a un solo e unico individuo. La stratificazione visibile e costituita prevalentemente sui toni del bianco della parte Informale, è un’esortazione dell’autrice a mettersi in una posizione di ascolto, a non soffermarsi all’apparenza in cui è più facile mettere a tacere la voce più intima preferendo proseguire senza porsi troppe domande o senza entrare troppo in profondità alla sostanza della vita come del percorso che si sta affrontando, bensì fermarsi e osservare più attentamente quegli impercettibili movimenti, quelle pieghe, quelle cicatrici quasi invisibili che costituiscono il bagaglio personale di ciascuno e che si imprimono in maniera indelebile proprio sulla pelle che Barbara Cappello mette a nudo ascoltando gli echi di parole che a volte emergono interagendo con l’immagine sottostante. In alcune tele va addirittura a sovrapporre all’immagine fotografica una trasformazione grafica, come se in qualche modo i corpi reclinati, di spalle oppure aperti a mostrarsi senza alcun velo, suggerissero il corpo precedente da cui provenivano, l’animale dal quale si sono evoluti e che ha costituito la partenza della fase metamorfica al termine della quale hanno raggiunto la consapevolezza dell’essere umano. La riflessione della Cappello si spinge così verso la spiritualità, verso una rinascita karmica che presuppone continui passaggi da un corpo all’altro perché la vita dell’anima sopravvive alla materialità terrena; sembra che siano i soggetti stessi, con le loro pose, a suggerire all’autrice la forma precedente, come nell’opera Poket Ladybird dove la posizione accucciata della donna, quasi richiusa su se stessa, evoca quella di un uccello immaginario e suggestivo, stilizzato perché spesso l’evocazione del passato remoto e ancestrale non ha più i tratti della realtà bensì appartiene al mondo del ricordo, quasi esso fosse un tatuaggio impresso nella memoria dell’epidermide. Il filo dorato costituisce il legame indelebile con il sé precedente, quell’essenza spirituale assolutamente personale che non può essere spiegata piuttosto solamente percepita attraverso l’intuizione e l’ascolto della sottile corda emozionale. L’approccio sperimentale di Barbara Cappello si sviluppa anche attraverso l’utilizzo di materiali differenti, funzionali a mettere in evidenza la mobilità del visibile, quasi come se non vi fosse un’unica prospettiva persino davanti al medesimo punto di osservazione, come se la relatività e l’impossibilità di cogliere l’attimo determinasse possibilità infinite e infinite opzioni che rendono ogni cosa inafferrabile quanto mancante di qualsiasi punto fermo. È questo il senso del plexiglas, parte integrante dell’opera Phaedrus, che attraverso la rifrazione dovuta al rilievo della superficie rispetto alla sottostante fotografia infonde la sensazione di trovarsi davanti a una terra di mezzo tra realtà e immaginazione, tra tempo presente e ricordo di un istante vissuto, tra concretezza dell’evidenza e impalpabilità del percepito. A volte il corpo diviene poi assoluto protagonista di performance di cui Barbara Cappello è ideatrice e regista, in alcuni casi mettendo in scena se stessa mentre altre invece affidando l’interpretazione alla personalità di soggetti affini alla sensazione che desidera esprimere e suscitare; il progetto Dea CartAbito, la Nuova Libertà si ispira così al coraggio delle donne di perseguire i propri sogni nonostante le limitazioni e le convinzioni limitante a cui la stessa società ancora le sottopone e dunque veste una donna di un abito di carta a cui affida, attraverso i fogli di acetato ricamati in rosso, tutti i progetti che appartengono ai desideri e che solo in virtù della consapevolezza della propria forza e della capacità di andare al di fuori degli schemi possono essere perseguiti. La Dea-donna cammina nella notte sopra le strisce pedonali, a sorpresa irrompe irradiando luce e portando con sé una valigetta fatta di fogli, evocanti tutto ciò che con l’esperienza e il bagaglio emotivo ha costruito e consolidato. Barbara Cappello, formatasi come autodidatta, attualmente presidentessa della Federazione Italiana Degli Artisti Trento e membro di Commissioni Giudicatrici per Bandi Concorsi atti alla realizzazione di Opere d’Arte Pubblici e privati, ha al suo attivo la partecipazione a molte mostre personali e collettive su tutto il territorio nazionale.

 

Marta Lock