Fiorenzo Gegasperi

Ovunque si apra un varco per pensare

Empedocle

Lo sguardo indagatore e curioso di un osservatore che riesce a leggere le cose recondite, o che apparentemente non si vedono, saprà sicuramente cogliere in queste delicate opere – che hanno la leggerezza dei capelli di Venere e la delicatezza dei canti orfici – le sottili trame che legano l’universo. Bisogna immaginare ciò che non si vede per carpire appieno la totalità dell’opera di Barbara Cappello, così come disse Salustio a proposito dei fatti degli dèi: «queste cose non avvennero mai, ma sono sempre».

Il nudo, maschile e femminile, è l’oggetto del desiderio da manipolare, trasformandolo di volta in volta in pesce, in graffio cromatico, in arabesco, in squisite tonalità confondendo i sessi e impacciando i sensi. Il corpo dalle sinuose curve diventa palcoscenico e al contempo scenografia. Su di lui, sul soffice palco, ci immaginiamo le leggiadre ninfe danzare e, ad ogni volteggio, srotolare lunghi fili d’oro – come nella fiaba di Tremotino – o rossi come il sangue che porta la vita, o ancora bianchi come la speranza per il futuro. Opere candide quelle di Barbara Cappello, esenti dalla torbida presenza delle tre Parche, Cloto, Lachesi e Atropo: loro, in realtà, non filano ma tessono il filo del fato e mai sappiamo quando Atropo, tagliando il filo, recide la vita. Ma questa è un’altra storia, un altro mito da cui questi lavori si tengono ben lontani.

D’altronde l’erudita ricerca a tutto campo dell’artista – ad esempio le carte utilizzate come supporto sono studiate appositamente per ricevere ed evidenziare ciò che accolgono (dolci al tatto, odorose, piacevoli allo sguardo) – esplora e fa proprio il mondo della mitologia dell’antica Grecia e di quella romana. La frequentazione di queste terre del mito l’ha portata – o forse sarebbe più giusto dire l’ha catturata – e trascinata nei labirinti del possibile, del probabile e dell’inverosimile?

In quella terra dove Narciso rinnova il mito dell’innamoramento folle e della morte ogni volta che si china sull’acqua e dove l’ermafrodita bisessuale, figlio della dea dell’amore e del signore delle erme (Ermes/Mercurio), può essere invocato per le sue qualità erotiche e di fertilità, l’artista tende l’orecchio e lo sguardo per raccogliere gli ultimi sussurri di una cultura talmente ricca da far impallidire la superficialità d’oggi. È ben consapevole che l’uomo è una continua metamorfosi: le forme mutano e si può rimanere imprigionati in un corpo bestiale pur conservando pensieri e sentimenti umani. Ce lo ha insegnato Ovidio nelle sue Metamorfosi, lo ha approfondito Antonino Liberale. E se non bastasse questo enorme e rigoglioso bagaglio, ci sono sempre le poesie di La folie Baudelaire, ovvero l’oscurità naturale delle cose da esplorare.

L’artista frequenta tutti questi territori in maniera errabonda, talvolta raminga, e lo fa con i piedi ben piantati nell’oggi, non disdegnando le moderne tecnologie: semplicemente le utilizza, le fa sue, come dovrebbe essere, senza rimanervi invischiati e men che meno schiavizzati. Usa la macchina fotografica per catturare (gelosamente imprigionare?) le movenze dei corpi nudi, le pieghe che diventano mandorle – le vesica piscis dell’arte romanico-gotica –, le forme che si distillano in contorni per trasformarsi infine in semplici linee che mutano in pesci, liberi abitatori del mare, cantori dell’inconscio, svelatori di segreti del temperamento e del carattere riposti nello strato profondo della personalità, vale a dire quei contenuti che hanno a che fare con la fecondità e le energie vitalistiche di cui dispongono, nell’interiorità, i mondi delle madri

Mutamenti, metamorfosi, poesie che diventano forme, forme che si distillano in poesie. E ancora segni, gesti, carezze pittoriche e blandizie fotografiche. Il tutto impaginato su candidi fogli bianchi, su ritagli che si sovrappongono, di sdoppiano, s’incontrano, danzano e si baciano. Gli spazi vengono lasciati vuoti ma lì non vige l’assenza: c’è il mondo che racconta, anzi sussurra storie e fiabe, leggende e mitologie da far venir le vertigini. È lì, nel distacco, che i corpi e i segni si confrontano, assumendo un ritmo musicale da capogiro. Le parole danzano, gli indizi segnici ondeggiano, i timbri cromatici volteggiano. Talvolta sono le poesie che accompagnano il tutto. Oppure, rovesciando il mulino di Amleto, sono la fotografia, la pittura e il disegno che accompagnano la parola. 

Ma cos’è che lega tutto ciò? Cosa tiene unito e integro questo universo dove i pianeti girano impazziti (ma sempre con una logica)? I fili. Gli innumerevoli fili che accompagnano ogni opera. Sono loro che legano, imprigionano, riallacciano saperi antichi con quelli nuovi, tengono unito il sotto con il sopra, ciò che è visibile con ciò che non è visibile. Sono loro che aiutano l’opera a rapirci, sottraendoci al tempo ordinario – quello della Storia – e agli spazi impoveriti della quotidianità, immettendoci in un cerchio magico, in un tempo dilatato, in un oltre-tempo. Il va e vieni dell’ago è un movimento che ricorda lo scorrere di cicli, giorni, mesi, anni, mentre l’immobilità dell’ordito corrisponde a quello dell’asse polare. Quest’asse è in realtà unico, ma la sua immagine si ripete in tutti i fili dell’ordito, per cui l’istante presente, che resta sempre uno, sembra ripetersi attraverso il tempo. 

Separare e unire, parole e segni, pause e ritmo, immagini e silenzi. Ogni opera dell’artista è un vaso di Pandora.