Mediterraneo, terrarum orbis
Nel posteggio della speranza esiste il sogno.
Dentro l’attesa di una nuova vita albera l’incerto.
Sotto la luce del giorno si stende il forse.
Dietro al mare il confine del passato rimane l’orizzonte del futuro anteriore
Scrive Predrag Matvejeviç nel suo Breviario Mediterraneo: “La saggezza antica ci insegnava che il Nostro Mare, arriva fin dove cresce l’ulivo” e che “I suoi confini non sono definiti né nello spazio, né nel tempo.” E continua “Lungo le coste di questo mare passava la via della seta, si incrociavano le vie del sale, e delle spezie, degli olii e dei profumi, dell’ambra e degli Ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell’arte e della scienza. Gli empori ellenici erano a un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa.”
Prendiamo alcune delle parole di questa breve citazione, senza sottovalutarne la bellezza dell’immagine raccontata. Ulivo, albero simbolicamente figurante la pace. Saggezza, stato di elevazione in cui la mente umana dovrebbe avere la massima ambizione. Sapienza, erudizione massima in cui ogni singola persona è avente di diritto, come per la conoscenza. Arte, espressione creativa declinata nelle discipline proprie con diritto e dovere di esprimersi e di raccontare anche i temi scomodi, invisibili, politicamente e socialmente scorretti. Scienza, concepimento del sapere.
Riflettiamo bene su queste parole e su quelle espresse da Matvejeviç per arrivare ad una definizione concreta sull’importanza della vita passata, presente e futura sulla terra che disegna i confini di questo Mare Nostro e nelle acque del Mare strictum, come fu definito nel mappamondo di Ebstorf nel XIII secolo, come luogo portatore di cultura, ma generatore anche di morte.
E se in passato la vita-morte è stata scritta, disegnata, avvenuta soprattutto attraverso gli scontri bellici reali, con uso di armi più o meno sofisticate, a seconda delle epoche, tra le varie popolazioni che vi sono transitate, spostate, migrate, ora, al tempo nostro, questo nostro mare, si tinge ancora del colore della vita-morte, ovvero il sangue, con quella sfumatura politicamente corretta chiamata immigrazione, senza uso di alcuna freccia, lancia, balestra, palla di cannone, mitra o bazuca. Forse, l’immigrazione afro-mediorientale è la nuova arma che la geo-politica sta impugnando, come strategia per i futuri confini europei.
Ma prendiamo una conchiglia e poggiamola sul nostro orecchio, così da sentire la voce del Mare:
“Ecco una barca. Una ennesima barca che nel buio dei miei flutti immette la sua plancia. Quasi affonda, da quanto carico porta. È il solito carico. Quello che porta un bagaglio di vite indescrivibili, invisibili, senza identità alcuna. E, quel carico, di carne umana, che ha deciso, nella disperazione della propria terra, di provare a viaggiare sull’onda della speranza, quel carico ha estirpato le proprie radici e le ha invasate momentaneamente dentro la barca con l’auspicio di poterle poggiare su una terra nuova, dove trovare il cibo necessario per la sopravvivenza. Accolgo questa barca, come tutte le altre ho accolto, ma come posso spiegare a queste vite disperate, che di là della loro terra esiste una terra difficile, sconosciuta alla loro cultura? E come posso raccontare che sono stati ingannati da uomini biechi, infimi, che speculano sulle loro vite, attraverso quel dio denaro, a cui si sono rivolti per pagare questo viaggio incerto, spedendo fino all’ultimo soldo? E, ancora, come posso svelare che talvolta il fato sovrasta la mia natura e si inghiotte le loro vite? Urli di terrore. Fiati mozzati di paura. Lamenti. Palpiti di umana fratellanza. Flebili respiri nel canto di speranza. Onde del mare salate. Marosi silenti di sabbia. Questa è la colonna sonora della traversata che accompagno.”
Diviene importante, pertanto, ascoltare queste parole e portarle alle vista di tutti, con l’impegno delle espressioni artistiche, attraverso cui si ha il dovere di raccontare, di denunciare di non permettere che queste anime rimangano nel buio della futura dimenticanza, utilizzando il linguaggio della bellezza, della conoscenza e della sensibilità, affinché colui che osserva si trovi innanzi a dei racconti a vero dire tragici, ma che hanno celato un visibile desiderio di ricominciare ad essere delle identità riconosciute.
Identità, queste, viste come alterità, ma non dimentichiamo che solo la diversità arricchisce ed evolve il futuro dell’essere umano, attraverso uno scambio continuo, abolendo i confini del presunto potere aspirante alla conformazione identitaria.
©Barbara Cappello