Il paradiso dei gatti

Mare mosso. Oggi, le onde esprimono il loro carattere con spumeggianti danze insieme all’impeto del vento che proviene da Trieste. È una di quelle giornate in cui il mare si è svegliato con la fibrillazione un poco alta, motivo per cui non è consigliato immergervi la totalità del corpo per beneficiare della sua acqua salata.
Decido, allora, di dedicare del tempo alla terraferma, recandomi in visita alla cittadina, che della Serenissima Repubblica Marinara, e, ancor nei più remoti tempi, romana fu.
Parlo così, tra uno spruzzo d’acqua salmastra e l’altro, di Poreç, locata in fronte al mare Adriatico sulla costa ovest della penisola d’Istria, appartenente ora, al popolo croato.
Poreç veste le sue strade di pietre bianche, lucide e consunte dal passaggio di innumerevoli piedi che l’hanno nei corso dei secoli calpestata. I suoi palazzi e le sue case sfoggiano e mettono in bella mostra l’architettura veneziana con le sue finestre in stile gotico-veneziano e veneto-bizantino e i cornicioni, visti dal basso, sfoggiano dei preziosi cassonetti geometrici in legno, così antichi che trasudano quasi l’odore del tempo che fu e delle vite trascorse sotto quella loro protezione domiciliare.
Poreç brulicante di turisti, che come formiche addensano il centro storico per consumare il cibo effimero messo in bella mostra dai commercianti imbonitori, che hanno alle spalle l’arte della vendita tramandata dai ricchi veneziani e la caparbietà di un popolo duro e inscalfibile di sangue croato.
Poreç semi deserta nelle calle laterali dal centro che palpita.
Poreç con poetici scorci capaci di intenerire anche il più rude dei cuori. Pietre sconnesse imbastardite dalla gramigna. Intonaci scalcinati. Colori sbiaditi. Vetri impolverati dal tempo e dal sale. Vetri infranti dalla noncuranza. Piccoli usci di legno antico dalle serrature arrugginite. Cortili silenziosi con il profumo dei panni freschi di bucato. Tende che fungono da porte d’ingresso di piccole dimore a pianterreno, ove la musica delle stoviglie suona l’annuncio del pranzo imminente insieme all’aroma speziato delle pietanze che cuociono.
È caldo. Il mare impazza con zampilli spumeggianti sulla passeggiata del lungomare davanti all’imbocco di Lj Gaja. Alcuni passanti si fermano sul ciglio della strada marina davanti all’acqua ed ecco che Nettuno a dispetto spruzza loro un’onda salata. Piccolo spavento per l’inaspettato gesto, ma il sorriso si apre come un ventaglio di dama sulle labbra della bellezza bagnata.
Secoli di storia trascorsa. Indietreggio ora fino al I. sec. d.c. Un grande cedro ombreggia nell’abbraccio dei suoi rami un tempio romano dedicato a Nettuno. Probabilmente, come la storia vuole è il tempio più antico di tutta l’Istria e si possono ammirare una delle pareti e diversi resti della base del tempio. Curioso. Qui la gente non arriva. E dire che sono a due passi dal brulicare della vita. Siedo sul frammento di una colonna che giace a terra, volgo lo sguardo alla parete, presumo, distale del tempio del Dio del mare, cullo il mio pensiero nella fantasticaggine spontanea delle gesta avvenute in questo luogo, frutto dell’insediamento bizantino.
Lascio alle spalle il piccolo foro romano, scendo lungo il vialetto lastricato di pietre, talmente dismesse che danno l’impressione di incitare i miei piedi al ballo della tarantola. Sorrido. Mi mette allegria. La stradina si stringe e dal nulla silenzioso che adorna le mie spalle, davanti a me si apre una piazza a pianta rettangolare affollata di gente, arredata dai tavolini dei bar e del ristorante. Sono curiosa. Mi avvicino al cameriere del locale che sta in strada: il suo compito è quello di invitare le persone ad accomodarsi a mangiare, e gli chiedo il nome della piazza. Marafor Trg. Trg sta per piazza. Marafor, pare, essere una combinazione tra “Marte” e “foro”, ovvero piazza di Marte. Fatico un po’ a capire lo spelling delle due parole, allora, chiedo al ragazzo di scrivermelo sull’unico pezzo di carta che ho in borsa.: uno scontrino. Deve appoggiarsi al telaio della bicicletta di Max Coltrini, che gentilmente la sua dolce metà mi ha prestato per poter raggiungere dal campeggio il centro di Poreç. E ride. Ride mentre lo scrive, scuotendo un poco la testa. Ridiamo insieme, lo ringrazio e mi congedo con un cenno della mano.
Infilo il primo vicoletto stretto che sta alla mia sinistra, appena dopo le sedie del bar, Lj Gaja: è scritto sulla targa appesa all’angolo della casa dall’intonaco verde acquamarina sbiadito dal sale. Cammino con la bici al fianco fino all’intersecare di una via che svolta a destra. Un astice ed un’orata, anzi un’orata ed un astice sono dipinti una dirimpetto all’altro sul cartellone del ristorante/grill ” Rialto”. Che pretenzioso questo nome per un locale che nemmeno gode di un piccolo ponte. Mi viene da sorridere. Alzo gli occhi e leggo la targa che nomina la strada. Non perderò mai, credo, l’ossessione che mi perseguita fin da bambina, di dover per forza leggere i nomi delle vie. Ulica Eufrazijeva, via S.Efrasio vescovo ( ma non santo, perché pare non canonizzato ) di Poreç del VI sec. d.c. patrono della basilica omonima, la quale fu eretta nel IV sec. e successivamente rasa al suolo e ricostruita, appunto, da Eufrasio nel 553 dc sul sito dell’antica basilica in stile bizantino. Svolto. Cammino. Tra il numero civico 34 e 38, un grande giardino, ombreggiato da piante piuttosto antiche, mi attira gli occhi. La cancellata, che dà sul marciapiede è di ferro laccato di azzurro e verde alquanto arrugginito. Un luogo assai curioso si apre davanti alle mie pupille. È uno spazio fuori dal luogo. È un luogo fuori dalla realtà che ci si aspetta, ovvero quello di un comune giardino, per esempio. Subito non capisco. Una poltrona verde anni quaranta coi piedini in legno. Un materasso con sopra dei cuscini damascati sciupati. Un tavolino con un televisore obsoleto sopra. Una vecchia scrivania con appoggiate cianfrusaglie d’ogni tipo. Una rete metallica di un letto. Una nassa adagiata a terra in orizzontale. Corde appese ai rami degli alberi con palline morbide di plastica o di pelo. Qualche secchio. Una vecchia poltrona dal colore indefinito tra il marrone e l’ocra. Oggetti di vario tipo, talmente tanti da non ricordarli bene. Sembra un arredamento in stile trans-avanguardista-surreale.
C’è un uomo. Alto. Pelle abbrustolita dal sole, solcata dal vento. Un cappello di canapa chiara. Una camicia a righe azzurrine e verde petrolio, sbottonata fino al petto, ampia al di fuori dei calzoni. La barba biancastra con striature di un biondo paglierino antico. Gli occhi strizzati tra le palpebre, vivaci e profondi del colore del mare. Parla in tedesco con alcuni passanti, giusto due.
Gatti. Ci sono gatti pigramente adagiati e sdraiati nei posti più comodi e impensabili. Sul materasso, sui rami degli alberi, sopra il televisore, dentro la nassa, sotto la rete del letto, sulla scrivania e dintorni. Gatti che con leziosa sinuosità mi si avvicinano con occhi interrogativi. Guardano, poi si girano e tornano al loro riposo nel torpore dell’ombra. Gatti.
I tedeschi si congedano e saluto l’uomo dei gatti, in italiano.
Finalmente italiano! Risponde con un bel sorriso attempato, ma tonico e fiero. Mi racconta la storia di una gattina cieca, mamma di Leo, un gatto che saporitamente sta dormendo sopra un cuscino poco distante da lui, la quale stamane è partita per Ljubljana, adottata da una famiglia slovena. Poi mi parla di gatti che sono “migrati” coi loro nuovi padroni in Germania, persino di uno, che l’anno scorso è andato oltreoceano, a Toronto. Dice di avere quarantadue gatti. Dice che l’anno scorso ne aveva novantanove. È fiero, molto fiero di accudire e dare in adozione i piccoli felini.
Trovo molto curioso ed insolito che un uomo faccia il “gattaro”. Solitamente sono le donne ad occuparsi di tale ” professione ” e poco prima di allontanarmi da lui gli dico che chi ama i gatti è una persona speciale. Il suo volto si fa serio ed asserisce convinto. Attimo di pausa di riflessione e poi mi racconta un brevissimo, a detta sua, aneddoto. -” Gunter, mio grande amico di Germania, quando stato qui ultima volta (a lui piace tanto i gatti!) mi ha chiesto perché i gatti sono tanto belli e sempre sereni. Allora io risposto che sono così sereni, così belli, perché non hanno sensi di colpa! “-
Risata fragorosa. Sua. Mia. Stretta di mano con saluto annesso. Faccio qualche passo, poi mi volto e torno indietro, non gli ho chiesto il suo nome!
-” Zeljko. Desiderio. Come re di Brescia di Longobardi. E questo, è Paradiso di Gatti.”-
Poreç è anche il paradiso dei gatti e Zeljko è il suo re e questo mare croato è un abbraccio salato dentro una poesia di colori, genti, culture nello scandire del tempo che passa.
Barbara Cappello

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