Anarchia del segno
Gli scavi nelle opere di Marisa Brun
Perché ci lamentiamo della natura?
Seneca
Essa si è comportata generosamente:
la vita, se si sapesse usarne, è lunga
Trovarsi a vis-à-vis con Marisa Brun. Veleggiare con lo sguardo oltre la sua persona nel contorno che appare tra una lieve coltre opaca del pulviscolo di carton-legno. Seguire il suo parlare ancheggiante da mezzo soprano. Farsi rapire dai suoi scavi. Questa potrebbe essere la sintesi delle sensazioni quale primo acchito che vibra sopra la pelle appena oltre la soglia con l’incontro nel suo Atelier.
Rudimentale il piano di legno dalle piccole dimensioni posto su due cavalletti, sul quale campeggia un manipolo a micromotore rotante, mozziconi di gessetti raccolti in una scatola rettangolare. Carta vetro a grana grossa da legno e altri piccoli utensili da artista; una rassegna di vasi di terre pigmentose di diverse cromie posti su uno scaffalino retrostante. Tutto intorno si apre una arena di opere in cui le figure umane divengono creature viventi che condividono la vita con Marisa, contornandola di racconti a volte sacri, talvolta profani, tuttavia sempre profondi, ancestrali e mai dimenticano di tenere a mente l’importanza della vita vissuta in ogni sfaccettatura, in ogni tempo, in ogni era; divengono quel memento tantrico quale stretta relazione tra natura e essere vivente.
Seguendo la filosofia nietzschiana, Marisa Brun esprime in una delle sue opere – “Così parlò Zarathustra”- il concetto in cui l’uomo deve entrare nello stretto rapporto con la terra e lasciare la tecnica. Nell’osservare le scanalature del bassorilievo cui è composta, salta agli occhi la spiga di grano che questo essere umano brandisce; forse uomo, ma anche donna, in quanto pare di vedere Demetra, che giace su un fianco al di sotto di messi. È corniciato nella parte superiore da strumenti tecnici, i quali rimandano a degli ornamenti geometrici di epoca romana. Una spiga come una fiamma. Un lavoro che narra. Racconta. Parla. Dice di storia. Dialoga con l’osservatore. Svela di Marisa la sua passione per la natura, come per l’archeologia romana.
Marisa Brun, archeologa, dunque, scava per realizzare le sue opere. Da un pannello composto da cartone e legno pressato, chiamato anche cuoio, spalma una massa di pigmento in diverse cromie, lo fissa e successivamente incide scavando. Estrapola le forme che sono sotterrate dai vari strati pressati, esplora questa “terra”, riporta in luce esseri appartenuti ad un passato culturale che abitava nella mitologia, come dentro la filosofia, come semplicemente in un qualsiasi periodo temporale di vita. Narra di loro, talvolta, drammi, come gioie. E favorisce la possibilità a queste figure di vivere nell’ambientazione da cui sono circondate. Crea loro il movimento perpetuo del vento, come dell’acqua, come dell’erba che si sposta a seconda di una folata imprevista.
Marisa Brun ama il suo vivere sola. Ama restare a dialogare con quei pensieri che queste figure esprimono. Trova la sua meditazione profonda nel confronto con le creature da lei fatte emergere dal buio. Probabilmente riceve delle risposte a domande intime, indicibili, traendo quella luce da seguire per il suo cammino di vita, così lungo e generoso con lei. Una vita che ha saputo, ma ancora sa, usare, perché cosciente di tale dono. Donna e artista indipendente. Autodidatta. Anarchica nel segno dello scavo. Marissa Brun mai è scesa a compromessi durante la sua carriera artistica, come di vita. Un pensiero critico di rilievo, che le ha permesso di realizzare ciò che era ed è nei suoi progetti. Ricordo di lei la Galleria Quadri Arte, nel quartiere di San Martino a Trento, in cui sono passati ad esporre diversi artisti, come l’impegno in diverse associazioni Culturali.
Facendo un piccolo balzo indietro nel tempo di Marisa, possiamo percorre la sua evoluzione di ricerca nel suo operato artistico. Partendo da una pittura che oserei chiamare cubismo espressionista, traccia talvolta con tempere, altre con acrilico, linee e figure che agli occhi di oggi sono l’embrione dei suoi basso rilievi su carton-legno. Dopodiché sperimenta i “telari lavati”. Opere realizzate su tela Penelope: getta terre pigmentose, le fissa, le lava ripetutamente per estrapolare in un secondo tempo delle figure. Ecco che anche qui troviamo la smania di mettere in luce, svelare. In seguito si giostra su terre graffiate. Pigmenti su cartone telato, fissati e scarta-vetrati, su cui rimarca a carboncino delle linee che compaiono flebili e tracciano contorni antropomorfi dalle espressioni drammatiche. Nuovamente la sua natura per lo scavo affiora. Ecco che trova il suo segno, anarchico, poiché è scevro da regole e assolutamente libero nel suo esprimersi. Linee armoniche, ondeggianti creano paesaggi naturali attorno a figure umane perfettamente in simbiosi con esse. Linee scavate nella superficie quali solchi tracciati da un aratro trainato dal lento moto dei buoi. Solchi che cantano alla luce di storie umane. Tracce che soffiano negli occhi e riempiono le narici di polvere terrestre in cui l’odore della natura urla la sua urgenza di ritrovare quell’equilibrio simbiotico, quale religione animista di un futuro più che prossimo.
Marisa Brun danza con quel Dio che Terra è dentro l’aria.
Barbara Cappello